martedì 4 agosto 2009

La Storia le storie: la storia di Margherita. Margherita Sarfatti una critica d'arte dà l'immagine al Fascismo di Massimo Capuozzo

Margherita Grassini nacque a Venezia nel 1880, ultimogenita di una ricca famiglia ebrea: un suo cugino, Giuseppe Levi, padre di Natalia Ginzburg, diventò esponente dell’antifascismo torinese, mentre lei fu ideologa e creatrice dell’ideologia e della cultura fascista. Ella trascorse un’adolescenza dorata. La sua educazione, rigorosamente privata, fu seguita da tre precettori di qualità, Pietro Orsi, Pompeo Molmenti e, soprattutto, Antonio Fradeletto, unita al clima d’èlite intellettuale che si respirava nel palazzo di famiglia, Palazzo Bembo sul Canal grande, determinò una precoce apertura verso le arti, le lettere, la storia e le lingue. Il terreno si rivelava straordinariamente fertile: infatti, la Sarfatti si appassionò al romanticismo socialisteggiante di John Ruskin ed alla poesia civile di Carducci e, per questa strada ideale, etica, filosofica e sentimentale, approdò al socialismo, come ad una sorta di religioso umanitarismo. Ella frequentò Alberto Martini e Vittorio Pica, con cui fu in rapporto epistolare. Il 1895 fu un anno cruciale per la Sarfatti. Nella sua bella casa veneziana capitò il più rappresentativo scrittore inglese di origine ebraica, Israel Zangwill, autore di The Melting Pot, un dramma sull’America come possibile terra promessa per gli ebrei fuggiti dal Vecchio continente. Zangwill fu molto colpito dallo scampato suicidio di Marco, fratello maggiore di Margherita, e gli dedicò un romanzo, Had Gadya, in cui trasformò il ragazzo in una figura esemplare, individuando in lui il prototipo del giovane ebreo all’inizio del nuovo secolo che, partecipe di una tradizione così vincolante come quella ebraica, non riusciva a vivere nell’epoca della modernità. Margherita in parte sentì anch’ella questa forte ipoteca sulla sua vita, di essere portatrice di una cultura ed erede di un credo religioso, ma, a differenza del fratello, se ne distaccò assai presto convertendosi al cattolicesimo e coltivando la vocazione ad essere una donna sempre all’avanguardia, assolutamente moderna, anche a costo di cadere in uno dei peggiori equivoci e di individuare nel Fascismo una delle forme di superamento di una cultura che riteneva tradizionalista.
Nello stesso anno, un quarantenne professore socialista, conosciuto al mare, la corteggiava e la spinse a leggere le opere di Marx e di altri teorici socialisti, con grande scandalo della famiglia. Inoltre, conobbe il penalista ebreo Cesare Sarfatti, un mite gentiluomo corpulento, allora quasi trentenne, anch’egli socialista: la simpatia tra i due, osteggiata dalla famiglia, si trasformò ben presto in amore e, appena Margherita compì 18 anni, nel 1898 ebbero luogo le nozze. Già nel viaggio di nozze a Parigi, la Sarfatti mostrò la sua innata vocazione d’intenditrice d’arte, acquistando un paio di Toulouse-Lautrec. Nel 1902, la coppia si spostò a Milano dove il marito si iscrisse al Partito socialista fino a diventarne l’avvocato di punta. Intraprendente, passionale, dagli occhi ardenti, appena arrivata nel capoluogo lombardo, la Sarfatti volle esplorare tutte le novità della metropoli e del mondo moderno dando definitivamente l’addio a John Ruskin, un autore più adatto alla melanconica e tradizionalista Venezia che alla dinamica e modernista Milano. Il suo primo incontro con il Futurismo, la rivoluzione che la coinvolse e la sconvolse, avvenne grazie al marito che aveva sposato la causa di Filippo Tommaso Marinetti al processo per oscenità a Mafarka. Il Futurismo e la scandalosa fama dello scrittore si riversò anche sul difensore, dandogli una notevole notorietà professionale. Agli inizi del secolo, la Sarfatti diventò una delle maggiori sostenitrici dei futuristi. I Sarfatti erano vicini a Filippo Turati e Margherita si impegnò politicamente nel Partito socialista, rivaleggiando con Anna Kuliscioff e con Angelica Balabanoff, le due donne chiave del socialismo italiano. Nel 1909, la Sarfatti iniziò la sua carriera come giornalista, responsabile della rubrica di critica d’arte dell’Avanti! e, in questa professione, assolutamente inusuale per una donna, ebbe presto importanti riconoscimenti. Milano, in quel momento, era straordinariamente fervida di idee e di iniziative e Filippo Tommaso Marinetti aveva un ruolo di dirompente novità. Margherita strinse amicizia con i pittori futuristi, primo fra tutti Umberto Boccioni, poi con Mario Sironi, infine con Achille Funi, a cui più avanti dedicò una monografia. In questo periodo, Margherita Sarfatti approdò al realismo magico che conservava le atmosfere inquietanti ed oniriche della pittura metafisica e gettò le basi per la sua attività futura mentre accorciava le lunghe gonne a balze, fumava e frequentava la casa della combattiva Anna Kuliscioff. Dal 1910, la Sarfatti fu l’animatrice di uno dei salotti intellettuali più esclusivi di Milano, al numero 93 di corso Venezia, un salotto di raso cremisi, che accoglieva, oltre al gruppo futurista, intellettuali come Massimo Bontempelli ed Ada Negri e scultori come Medardo Rosso ed Arturo Martini. L’obiettivo della Sarfatti era di restituire a Milano un ruolo di centralità culturale e, a questo proposito, nel 1923, si fece iniziatrice, con il gallerista Lino Pesaro, anch’egli di origini ebraiche, della mostra di Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppo e Sironi, primo nucleo storico del Novecento. Nel 1912, quando Anna Kuliscioff fondò La difesa delle lavoratrici, la Sarfatti si impegnò con scritti e con denaro alla riuscita dell’iniziativa. In casa Sarfatti la vita scorreva intensa ed anticonformista, allietata da tre figli. Era la Belle époque e la famiglia Sarfatti comprò, a pochi chilometri da Como, una casa di campagna in cui pittori ed artisti, poeti ed amici erano frequentemente e a lungo ospitati. Ma il 1912 fu anche l’anno fatale: in questo contesto, irruppe nella scena un giovane focoso, grande oratore, violento e visionario, un uomo del tutto o niente. Il 1° dicembre, Mussolini assunse infatti la direzione dell’Avanti! e si trasferì a Milano. 
Attraverso le colonne del giornale del Partito socialista cominciò a dare energiche spallate all’impalcatura del socialismo riformista, spostando un’ala del partito verso l’interventismo con una mossa determinante per le vicende del paese. I Sarfatti furono attratti da Mussolini e gli si avvicinarono, anche perché Margherita non era mai stata un’ortodossa socialista, anzi, La Voce di Giuseppe Prezzolini era da lei particolarmente ascoltata. Purtuttavia la Sarfatti, turatiana e quindi avversa alla vincente corrente rivoluzionaria di Mussolini, si presentò al direttore per dare le dimissioni da collaboratrice del giornale, ma fra i due nacque subito una simpatia reciproca. Proprio l’adesione interventista realizzò la prima diversione della storia intellettuale della Sarfatti e del successivo ventennio: il socialismo, per sua natura internazionale e di classe, sposava una causa nazionalista che ne era l’opposto. La guerra mondiale però portò anche lutto e dolore perché vi perse la vita il primogenito della Sarfatti, Roberto, partito volontario appena diciassettenne. La relazione della Sarfatti con Mussolini in termini sentimentali si sviluppò dopo la guerra e dopo quella terribile perdita ed andò avanti per vent’anni fra alti e bassi. Non era un rapporto sereno: scoppiavano anche furiose liti di gelosia perché Mussolini, ultramaschilista dichiarato, non intendeva interrompere le altre sue relazioni amorose. I rapporti tra i due rimasero così, per alcuni anni, su un piano di libertà socialista. In questo contesto maturò il distacco della Sarfatti dai socialisti per avvicinarsi prima agli ambienti del cattolicesimo modernista, poi alla causa dell’interventismo e successivamente a quella delle camicie nere. Tra i vari moventi che attirarono la Sarfatti verso la destra più reazionaria ci fu anche l’incapacità della sinistra di essere al passo con i tempi: i riformisti rappresentavano una cultura politica legata al passato, senza sapersi collegare alle nuove generazioni antipositiviste ed antimaterialiste che stavano nascendo a Milano, a Firenze e a Roma. Nel salotto milanese della Sarfatti si discuteva molto del vento antisocialista che soffiava nelle grandi città. Nel 1918, Margherita, espulsa come Mussolini dal Partito socialista per il loro acceso interventismo, entrò a far parte della redazione del quotidiano il Popolo d’Italia, fondato dallo stesso Mussolini. Erano gli anni decisivi in cui si sviluppava la massima influenza politica di Margherita Sarfatti sul fondatore del Partito fascista. Nell’adunanza milanese del 25 marzo in piazza San Sepolcro, Margherita fu al fianco di Mussolini e, con lui, affrontò le delusioni dei primi anni, i successi del 1921 e del 1922 e la terribile prova del 1924, in seguito al delitto Matteotti. In questo periodo, la Sarfatti fu collaboratrice di altri giornali, come La Stampa di Torino e Gerarchia, una rivista di teoria politica, che diresse dopo il 1922. Durante questi anni, la relazione fra la Sarfatti e Mussolini restò comunque ufficialmente segreta. Entrambi sposati, anche se nessuno dei due nascondeva al rispettivo coniuge la relazione, essi ritenevano tuttavia opportuno non ostentarla: a Milano, uscivano separatamente dalla redazione del Popolo d’Italia per ritrovarsi in Corso Venezia e da lì raggiungevano un rifugio segreto. Talmente vicina a Mussolini, la Sarfatti fu un personaggio di primo piano nella costruzione del Fascismo: Margherita riteneva che la matrice genetica di uno Stato nuovo era possibile solo chiamando a raccolta la generazione degli intellettuali cui ella stessa apparteneva, per questo tentò di coinvolgerli nella costruzione di un linguaggio artistico nuovo, ma nel solco della tradizione classica. Questo pensiero era l’obiettivo che la Sarfatti già si era data, ancor prima che il Fascismo diventasse una realtà. 
Nel 1924, morto il marito Cesare, Margherita Sarfatti iniziò a scrivere la biografia di Mussolini. L’idea era stata di Giuseppe Prezzolini che aveva pensato ad un lavoro in inglese, capace di illustrare al mondo le caratteristiche del nuovo Primo Ministro italiano. Nel settembre del 1925 il libro uscì in Inghilterra con il titolo The Life of Benito Mussolini. Nel 1926, la Mondadori stampò il volume in italiano col titolo Dux cui seguirono 17 nuove stampe in Italia, mentre all’estero fu tradotto subito in 18 lingue comprese il turco e il giapponese. Il ruolo pubblicitario della biografia Dux mostra la funzione giornaliera di mentore, di collaboratrice, di ispiratrice che la Sarfatti assunse nell’aiutare Mussolini a raggiungere i pieni poteri e a modellarne successivamente la figura di dittatore quale novello Cesare. È particolarmente degno di nota come a questa azione politica corrisponda, di nuovo attraverso la Sarfatti, l’ambizioso progetto culturale che prese il nome di Novecento. La grande carneficina della guerra aveva spinto all’autoriflessione anche i più dichiarati artisti d’avanguardia. Lo stesso Boccioni aveva riscoperto massa e volume in uno dei suoi ultimi lavori, prima della sua improvvisa scomparsa. Nell’Italia del primo dopoguerra assunse importanza crescente una rivista, Valori Plastici, che faceva la sua bandiera del volume e del chiaroscuro, contro il piano aprospettico proprio del Cubismo e del Futurismo. In questo clima fece breccia la Sarfatti, teorizzando ed esaltando una nuova idea, un nuovo ibrido: lo sposalizio tra modernità e tradizione, tra valori classici e gusto contemporaneo. Non fu questa un’operazione banale, fu un progetto culturale che vede in tutta Europa della seconda metà degli anni Venti, il Retour à l’ordre, un ritorno che coinvolse praticamente tutti i pittori italiani, a parte i neo-impressionisti di Torino e alcune frange di Strapaesani toscani. La Regina senza corona del Fascismo lavorava alla creazione di un movimento artistico che, come il Fascismo, sintetizzasse idee antitetiche, talvolta antinomiche. Questo parallelismo di metodo portò ad un analogo ibrido perché Novecento, intersezione di arte moderna e di arte classica, diventò un contenitore molto capiente così come un contenitore è stato, per esempio, il corporativismo, miscela fumosa di capitalismo e socialismo. La Sarfatti evitò accuratamente che il suo movimento assumesse i toni di una esaltazione propagandistica del regime: i soggetti, piuttosto, sono spesso dolenti e ben poco eroici, basti pensare ai quadri di Sironi o a quelli di Carrà di questa fase. Il Novecento fu duramente criticato dall’ala più gretta e conservatrice del regime, perché l’esperienza rimase sostanzialmente autonoma dai contenuti della politica e, in questa rivendicazione di autonomia artistica, di buon gusto e di cultura, risiede il più grande merito storico della Sarfatti. Il Novecento, intrappolato nelle feroci censure del secondo dopoguerra, ha avuto una forte influenza e la Sarfatti vi ha giocato un ruolo decisivo diventando, per alcuni anni, anche grazie all’avallo e all’autorità di Mussolini, la principale referente in materia d’arte in Italia: presente in tutte le manifestazioni, promotrice delle mostre del movimento, infaticabile produttrice di articoli, saggi, libri. Il 1925 fu un anno decisivo. Margherita Sarfatti si occupò dell’Exposition des arts décoratifs di Parigi: alla Mostra di Parigi la Sarfatti colse tutta la distanza che intercorreva tra l’accozzaglia stilistica del padiglione italiano di Armando Brasini e la nettezza geometrica della costruzione dell’Esprit Nouveau. La necessità di un drastico rinnovamento nell’architettura e nelle arti figurative propugnata dalla Sarfatti diede, a poca distanza di tempo, i suoi primi frutti e, per i suoi meriti in proposito, l’anno successivo ricevette la Legion d’onore. In questo periodo si precisarono i risvolti politici della sua operazione in campo artistico. I rapporti con Mussolini erano sempre molto stretti e Margherita era ormai per tutti la donna del Duce. A Milano, Mussolini intervenne all’inaugurazione della I Mostra del Novecento italiano, di cui la Sarfatti era stata teorica ed infaticabile animatrice. Il ruolo svolto dalla Sarfatti all’interno del gruppo fu fondamentale, non solo come promotrice ufficiale, ma anche come organizzatrice delle mostre e autrice di testi teorici: intenso fu il rapporto personale con gli artisti, ai quali rivolgeva attenzioni ora protettive, ora ammonitrici e stimolatrici. Tra gli artisti del gruppo, i rapporti furono particolarmente intensi con Funi, Sironi e soprattutto con Tosi, con cui intrattenne un ricco epistolario, prezioso documento per la storia delle dinamiche interne del movimento. Alla fine del 1926 la Sarfatti si trasferì a Roma dove incontrava sistematicamente Mussolini nella sua prima abitazione di via Rasella. Nel 1927, a Roma, organizzò la mostra dei Dieci artisti del Novecento italiano nell’ambito dell’Esposizione degli Amatori e Cultori. In una lettera di quello stesso anno indirizzata Agli amici Tosi, Sironi, Wildt, Salietti, Funi, Marussig, li rimproverava profondamente, accusandoli di ingratitudine. Nello stesso anno, alla terza esposizione di Monza, sprezzantemente definita, in precedenza, una retrospettiva etnografica, diventò, grazie alla sua presenza nel comitato direttivo e a quella di Sironi, Carrà e Ponti, una manifestazione meno provinciale. Si realizza la strada dei negozi dei torinesi, ma soprattutto una sala fu destinata a giovanissimi laureati del politecnico di Milano. Il Gruppo 7 incarnava il clima deliberatamente sovversivo voluto dal comitato direttivo e offriva le prime proposte di svecchiamento della nostra architettura con le coordinate macchiniste e funzionali, poetiche e geometriche dello spirito nuovo di Le Corbusier. Alla Sarfatti, Mussolini fu debitore anche dell’ideazione di riti e miti della società, con fez e gagliardetti, dal momento che proprio lei elaborò, nella sua produzione, il tratto messianico che connotava il Fascismo e cioè l’utopia di uno Stato nuovo, di uno Stato-mito, con un’élite intellettuale alla guida della nazione, dove pittori, artisti, scrittori e musicisti potessero avere un ruolo fondamentale, elaborando i miti che sono alla base della comunità politica. Nel 1928, quando Mussolini andò ad abitare nella Villa Torlonia, Margherita lasciò definitivamente la casa di Milano e si trasferì, con sua figlia Fiammetta nelle vicinanze della Villa. I tempi però stavano cambiando: le trattative per il Concordato con la Chiesa consigliavano Mussolini di sposare in chiesa Rachele e di far arrivare a Roma questa famiglia dimenticata. Quando Rachele e i figli arrivarono a Villa Torlonia, si assisteva alla buffa commedia delle due mogli che entravano ed uscivano a turno da porte diverse, guidate dall’abile regia del maggiordomo che doveva impedire che si incontrassero: Margherita aveva ormai 50 anni, era ingrassata ed aveva un carattere autoritario. Nel 1929, Margherita Sarfatti aveva ormai sposato la retorica del vigore e della disciplina, in parallelo all’evoluzione conservatrice del Fascismo: prese corpo allora la nuova sistemazione delle arti basata sulle confederazioni regionali che diede successivamente vita alle grandi mostre dei Sindacati e alle Quadriennali. In questa circostanza, fu gradualmente scavalcata dall’organizzazione messa in piedi da Oppo.
Nel 1930 accoppiò apertamente il Novecento al ritmo di passione combattiva e di fervente rinnovamento che doveva emergere dall’opera redentrice del Fascismo e pubblicò la Storia della pittura Moderna che testimonia il suo interesse per gli sviluppi dell’arte contemporanea europea. Lo stesso sostegno della Sarfatti alla Prima esposizione romana di architettura razionale del 1928, a quella per il Decennale della rivoluzione del 1932, il suo appoggio alla Stazione di Firenze del gruppo toscano di Giovanni Michelucci mostrano che la Sarfatti, con la sua riuscita campagna a favore dell’architettura razionalista, aveva contribuito a cambiare il volto dell’Italia Fascista. Il giudizio sembra forse troppo definito, anche perché questa stagione fu breve e si può considerare esaurita già nei primissimi anni Trenta, ma da un’analisi anche sommaria dell’evoluzione architettonica, successiva agli interventi della Sarfatti, questa teoria appare plausibile, anche perché la successiva adozione dello scheletrico e neoclassico stile fascista coincide con la progressiva emarginazione della Sarfatti. Nel dicembre del 1931, dopo la morte di Arnaldo Mussolini, consigliere ascoltato di moderazione, il clima culturale del Fascismo, infatti, cambiò e si involgarì. Emersero gli Starace e i Farinacci che imponevano al regime tutta la retorica imperiale che la Sarfatti ed altri avevano cercato di combattere. Lo stesso Toscanini, seguace di Mussolini fin dai tempi di piazza San Sepolcro, lasciò l’Italia. Nel 1934, la Sarfatti collaborava ancora con La Stampa e continuava a fare da ghostwriter per Mussolini che pubblicava sul New York Herald Tribune, con la sua firma, articoli scritti dalla colta poliglotta che intanto progettava un viaggio negli Stati Uniti, tentando di allontanare Mussolini dalle seduzioni hitleriane per avvicinarlo a Roosevelt. Ma, nell’America di Roosevelt, la Sarfatti non ebbe il successo che aveva avuto nell’Italia di Mussolini: a seguito di questo viaggio, pubblicò L’America, ricerca di felicità. Le cose però precipitarono e, con l’entrata in famiglia di Galeazzo Ciano, la freddezza di Mussolini nei suoi confronti divenne ostilità. Più volte attaccata nelle pagine de Il Regime fascista da Farinacci, rivendicò tenacemente il ruolo svolto dal gruppo del Novecento nella diffusione dell’arte italiana all’estero e sottolineò sempre la profonda trasformazione dell’arte italiana per l’impulso dato dal gruppo. Alla metà degli anni Trenta, a mano a mano che l’accordo con Hitler procedeva, l’ex amante fu emarginata e poi costretta ad un esilio, seppur dorato. Nonostante i suoi rapporti personali con Mussolini e la conversione al cattolicesimo avvenuta anni prima, non fu risparmiata dalle leggi razziali del 1938.
Il figlio Amedeo, con l’aiuto di Raffaele Mattioli, trovò una sistemazione in Uruguay. Margherita, dopo aver portato al sicuro in Svizzera le lettere di Mussolini, si trasferì a novembre a Parigi e l’anno seguente raggiunse il figlio a Montevideo. Evitò così, nella disgrazia, la ben più grave sventura che colpì la giovane Claretta Petacci, entrata al suo posto nella vita di Mussolini a partire dal 1936. In Uruguay, la Sarfatti rimase fino al 1947, continuando ad occuparsi intensamente di critica d’arte. Rientrò a Roma nel 1947: il dopoguerra fu per lei quello di una sopravvissuta, una donna anziana, troppo carica e truccata. Il suo tempo era passato. La Sarfatti morì a Soldo in provincia di Como, il 30 ottobre del 1961, lasciando nel suo ultimo libro, Acqua passata, le memorie della sua vita e dei suoi amici: la parola fascismo compare nel libro una sola volta.
Massimo Capuozzo

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